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Bartolucci, Direttore a vita della Sistina: la riforma liturgica è il prodotto di gente molto arida e ignorante in teologia

 

(ver la entrevista en castellano)
 

Il blog di approfondimento dottrinale (e ora anche liturgico, giacché tout se tient) Disputationes theologicae, ha meritoriamente realizzato un'interessantissima intervista al Maestro mons. Domenico Bartolucci, classe 1917, nominato da Papa Pio XII Direttore ad vitam (come vuole la tradizione) della Cappella Sistina. Nonostante la nomina vitalizia, egli fu evitto, cacciato e dichiarato decaduto per effetto dei maneggi del famigerato Piero Marini, non rimpianto ex cerimoniere pontificio, e del card. Noè, lui pure alfiere dello sfacelo liturgico e quindi chiaramente allergico allo splendore del gregoriano e specie della polifonia, da secoli incarnato dalla Cappella Sistina. Come noto, il posto di Bartolucci venne affidato a mons. Liberto, notato durante un viaggio in Sicilia da Giovanni Paolo II (grande pontefice, ma con scarsa sensibilità liturgica e artistica), perché abile corifeo di canzonette e ole nelle messe da stadio. Sicché ora la Cappella Sistina di mons. Liberto raggiunge esiti artistici di "desolante mediocrità" (parola di Sandro Magister): vedi in questo post.
Ecco quindi un ampio estratto dell'intervista: per leggerne l'integralità (come consigliamo caldamente) questo è il
link.


- Maestro la recente pubblicazione del Motu proprio “Summorum Pontificum” ha portato una ventata d’aria fresca nel desolante panorama liturgico che ci attornia; anche lei dunque può ora celebrare la “messa di sempre”.
Ma, a dire il vero, io l’ho sempre celebrata ininterrottamente, a partire dalla mia ordinazione… Avrei invece difficoltà, non avendola mai detta, a celebrare la Messa del rito moderno.

- Mai abolita dunque?
Sono le parole del Santo Padre anche se qualcuno fa finta di non capire e anche se molti hanno in passato sostenuto il contrario.

- Maestro bisognerà pur concedere ai denigratori della Messa antica che quest’ultima non è “partecipata”.
Suvvia non diciamo corbellerie, la partecipazione dei tempi antichi io l’ho conosciuta, tanto a Roma, in Basilica, quanto nel mondo, quanto quaggiù nel Mugello in questa parrocchia di questa bella campagna, un tempo popolata da gente piena di fede e di pietà. La Domenica a vespro il prete avrebbe potuto limitarsi ad intonare il “Deus in adiutorium meum intende” e poi mettersi a dormire sullo scranno, per non risvegliarsi che al “capitolo”, i contadini avrebbero continuato da soli ed i capifamiglia avrebbero pensato ad intonare le antifone!

- Una velata polemica, Maestro, nei confronti dell’attuale stile liturgico?
Io non so ahimè se siete mai stati a un funerale: “alleluia”, battimano, frasi ridanciane, ci si chiede se questa gente abbia mai letto il Vangelo; Nostro Signore stesso piange su Lazzaro e sulla morte. Qui con questo sentimentalismo melenso, non si rispetta nemmeno il dolore di una madre. Io vi avrei mostrato come una volta il popolo assisteva a una Messa da morto, con quale compunzione e devozione si intonava quel magnifico e tremendo “Dies Irae”.

- La riforma non è stata fatta da gente consapevole e dottrinalmente formata?
Scusate, ma la riforma è stata fatta da gente arida, arida, ve lo ripeto. E io li ho conosciuti. Quanto alla dottrina, il Cardinal Ferdinando Antonelli, di venerata memoria, mi ricordo che diceva spesso: “che cosa ce ne facciamo di liturgisti che non conoscono la teologia?”
[..]
- Ritornando alla crisi della Chiesa e alla chiusura di molti seminari, Lei, Monsignore, è fautore di un ritorno alla continuità della Tradizione?
Guardate, difendere il rito antico non è essere passatisti, ma essere “di sempre”, vedete, si sbaglia quando la messa tradizionale la si chiama “Messa di San Pio V” o “Tridentina”, come se fosse la Messa di un’epoca particolare: è la nostra messa, la romana, è universale nel tempo e nei luoghi, un’unica lingua dall’Oceania all’Artico. Per quel che riguarda la continuità nei tempi vorrei raccontarvi un episodio. Una volta eravamo riuniti in compagnia di un Vescovo di cui non ricorderò il nome, in una piccola chiesa del Mugello, giunse la notizia improvvisa della morte di un nostro confratello, proponemmo di celebrare subito una Messa, ma ci si rese conto che c’erano solo messali antichi. Il Vescovo si rifiutò categoricamente di celebrare. Non lo scorderò mai e ribadisco che la continuità della liturgia implica che, salvo minuzie, si possa celebrare oggi con quel vecchio messale polveroso preso da uno scaffale e che quattro secoli or sono servì ad un mio predecessore nel sacerdozio.

- Monsignore si parla di una “riforma della riforma”, che dovrebbe limare le storture che vengono dagli anni Sessanta.
La questione è assai complessa. Che il nuovo rito abbia delle deficienze è ormai un’evidenza per tutti e il Papa ha detto e scritto più volte, che esso dovrebbe “guardare all’antico”; tuttavia Dio ci guardi dalla tentazione dei pasticci ibridi; la liturgia con la “elle” maiuscola è quella che ci viene dai secoli, essa è il riferimento, non la si imbastardisca con compromessi “a Dio spiacenti e a l’inimici sui”.

- Cosa intende dire Maestro?
Prendiamo per esempio le innovazioni degli anni Settanta. Alcune canzonette beat e brutte e tanto in voga nelle chiese nel sessantotto, oggi sono già dei pezzi d’archeologia; quando si rinuncia alla perennità della tradizione per immergersi nel tempo si è condannati al volgere delle mode. Mi viene in mente la Riforma della Settimana Santa degli anni cinquanta, fatta con una certa fretta sotto un Pio XII ormai affaticato e stanco. Ebbene solo alcuni anni dopo, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, il quale checché se ne dica, in liturgia era di un tradizionalismo convinto e commovente, mi arrivò la telefonata di Mons. Dante, cerimoniere del Papa, che mi diceva di preparare il “Vexilla Regis” per l’imminente celebrazione del Venerdì Santo. Interdetto risposi: “ma l’avete abolito”. Mi fu risposto: “il Papa lo vuole”. In poche ore organizzai le ripetizioni di canto e, con gran gioia, cantammo di nuovo, quel che la Chiesa aveva cantato per secoli in quel giorno. Tutto questo per dire che quando si creano degli strappi nel tessuto liturgico quei vuoti restano difficili da riempire e si vedono! Di fronte alla nostra liturgia plurisecolare dobbiamo contemplarla con venerazione e ricordare che, nella smania di “migliorarla”, rischiamo di fare solo danni.

- Maestro, che ruolo ebbe la musica in questo processo?
Ebbe un ruolo incredibile per più ragioni. Il lezioso cecilianesimo, al quale certo Perosi non fu estraneo, aveva introdotto con le sue arie orecchiabili un sentimentalismo romantico nuovo, nulla a che vedere ad esempio con quella corposità eloquente e solida di Palestrina. Certe deteriori stravaganze di Solesmes avevano coltivato un gregoriano sussurrato, frutto anch’esso di quella pseudorestaurazione medievaleggiante che tanta fortuna ebbe nell’Ottocento.
Passava l’idea dell’opportunità di un recupero archeologico, tanto in musica che in liturgia, di un passato lontano dal quale ci separavano i cosiddetti “secoli bui” del Concilio di Trento…..Archeologismo insomma, che non ha nulla a che vedere, dico, che non ha nulla a che vedere con la Tradizione e che vuol restaurare ciò che non è forse mai esistito. Un po’ come certe chiese restaurate in stile “pseudoromanico” da Viollet-le-Duc.
Quindi fra un archeologismo che si vuol ricongiungere al passato apostolico, prescindendo dai secoli che da esso ci separano, e tra un romanticismo sentimentale che disprezza la teologia e la dottrina, in un’esaltazione dello “stato d’animo”, si preparò il terreno a quell’attitudine di sufficienza nei confronti di ciò che la Chiesa e i nostri Padri ci avevano trasmesso.

- Cosa vuol dire Monsignore, quando in ambito musicale attacca Solesmes?
Voglio dire che il canto gregoriano è modale, non tonale, è libero, non ritmato, non è “uno, due, tre, uno, due, tre”; non si doveva disprezzare il modo di cantare delle nostre cattedrali per sostituirvi un sussurramento pseudomonastico e affettato. Non si interpreta un canto del Medioevo con teorie d’oggi, ma lo si prende come è giunto fino a noi; inoltre il gregoriano di una volta sapeva essere anche canto di popolo, cantato con forza come con forza il nostro popolo esprimeva la sua fede. Questo Solesmes non lo capì, ma tutto ciò sia detto riconoscendo il grande e sapiente lavoro filologico che fece riguardo allo studio dei manoscritti antichi.
fonte:messainlatino.it
 
(Traducida al español)

Monseñor Domenico Bartolucci, sin pelos en la lengua, habla claro como pocos...

 
¡Resista, Maestro, resista!
Ofrecemos la traducción al español de una valiosa entrevista a Monseñor Domenico Bartolucci, de 92 años, nombrado por Pío XII Maestro "ad vitam" de la Capilla Sixtina pero alejado del cargo en 1997, debido a la intervención de Mons. Piero Marini, una medida que fue vigorosamente rechazada por el entonces Cardenal Joseph Ratzinger. El título del post, de hecho, hace referencia a las palabras que el mismo Ratzinger dijo a Mons. Bartolucci meses antes de que éste cesara en el cargo.

Maestro, la reciente publicación del Motu Proprio “Summorum Pontificum” ha traído un soplo de aire fresco en el desolador panorama litúrgico que nos rodea; también usted puede ahora, por lo tanto, celebrar la “Misa de siempre”.

Pero, a decir verdad, yo siempre la he celebrado ininterrumpidamente, a partir de mi ordenación… tendría dificultad, en cambio, no habiéndola dicho nunca, en celebrar la Misa del rito moderno.

¿Nunca abolida, entonces?

Son las palabras del Santo Padre, aún si algunos fingen no entenderlas y si muchos en el pasado han sostenido lo contrario.

Maestro, será necesario conceder a los denigradores de la Misa antigua que esta última no es “participada”…

¡No digamos disparates! He conocido la participación de los tiempos antiguos tanto en Roma, en la Basílica, como en el mundo, como aquí abajo en el Mugello, en esta parroquia de este bello pueblo, un templo poblado de gente llena de fe y de piedad. El Domingo, en las vísperas, el sacerdote habría podido limitarse a entonar el “Deus in adiutorium meum intende” y luego ponerse a dormir sobre el asiento… los campesinos habrían continuado solos y los jefes de familia habrían pensado en entonar las antífonas.

¿Una velada polémica, Maestro, respecto al actual estilo litúrgico?

Yo no sé si, ¡ay de mí!, han estado en un funeral: “aleluya”, aplausos, frases risueñas, uno se pregunta si esta gente leyó alguna vez el Evangelio; Nuestro Señor mismo lloró sobre Lázaro y su muerte. Aquí, con este sentimentalismo insípido, no se respeta ni siquiera el dolor de una madre. Yo les habría mostrado cómo asistía al pueblo a una Misa de difuntos, con qué compunción y devoción se entonaba aquel magnífico y tremendo “Dies Irae”.

¿La reforma no ha sido hecha por gente consciente y doctrinalmente formada?

Discúlpeme, pero la reforma ha sido hecha por gente árida, se lo repito, árida. Y yo los he conocido. En cuanto a la doctrina, el Cardenal Ferdinando Antonelli, de venerada memoria, solía decir a menudo: ¿“qué hacemos liturgistas que no conocen la teología?”.

Estamos de acuerdo con usted, Monseñor, pero es cierto también que la gente no entendía…

Queridísimos amigos, ¿han leído alguna vez a San Pablo: “no importa saber más allá de lo necesario”, “es necesario amar el conocimiento ‘ad sobrietatem’”. De aquí a algunos años se intentará entender la transubstanciación como se explica un teorema de matemática. ¡Pero si ni siquiera el sacerdote puede comprender hasta el fondo tal misterio!

¿Pero cómo se llegó, entonces, a esta distorsión de la liturgia?

Fue una moda, todos hablaban, todos “renovaban”, todos pontificaban, en la estela del sentimentalismo, de reformas. Y las voces que se levantaban en defensa de la Tradición bimilenaria de la Iglesia eran hábilmente calladas. Se inventó una especie de “liturgia del pueblo”… cuando escuchaba estas frases, me venían en mente las palabras de mi profesor del seminario que decía: “la liturgia es del clero para el pueblo”, ella desciende de Dios y no sale desde abajo. Debo reconocer, sin embargo, que aquel aire hediondo se ha hecho menos denso. Las jóvenes generaciones de sacerdotes son, tal vez, mejores que las que las han precedido, no tienen los furores ideológicos dominados por un modernismo iconoclasta, están llenos de buenos sentimientos pero les falta formación.

¿Qué quiere decir, Maestro, con que “les falta formación”?

¡Quiero decir que queremos los seminarios! Hablo de aquellas estructuras que la sabiduría de la Iglesia había cincelado elegantemente durante los siglos. No se da cuenta de la importancia del seminario: una liturgia vivida, los momentos del año son vividos “socialmente” con los hermanos… el Adviento, la Cuaresma, las grandes fiestas que siguen a la Pascua. Todo esto educa, ¡y no se imagina cuánto! Una retórica tonta dio la imagen de que el seminario arruina al sacerdote, de que los seminaristas, alejados del mundo, permanecen encerrados en sí mismos y distantes de la gente. Todas fantasías para disipar una riqueza formativa plurisecular y para remplazarla luego con nada.

Retornando a la crisis de la Iglesia y al cierre de muchos seminarios, ¿Usted es partidario de un retorno a la continuidad de la Tradición?

Mire, defender el rito antiguo no es ser del pasado sino ser “de siempre”. Vea, se comete un error cuando a la misa tradicional se la llama “Misa de San Pío V” o “Tridentina”, como si fuese la Misa de una época particular: es nuestra Misa, la romana, es universal en los tiempos y en los lugares, una única lengua desde la Oceanía hasta el Ártico.

Por lo que respecta a la continuidad en los tiempos, quisiera contarles un episodio. Una vez estábamos reunidos en compañía de un Obispo, cuyo nombre no recuerdo, en una pequeña iglesia del Mugello, y llegó la noticia de la repentina muerte de un hermano nuestro, propusimos celebrar enseguida una Misa pero nos dimos cuenta de que sólo había misales antiguos. El Obispo rechazó categóricamente celebrar. No lo olvidaré nunca y reitero que la continuidad de la liturgia implica que, salvo minucias, se pueda celebrar hoy con aquel viejo misal polvoriento tomado de un estante y que hace cuatro siglos sirvió a un predecesor mío en el sacerdocio.

Monseñor, se habla de una “reforma de la reforma” que debería limar las deformaciones que vienen de los años sesenta...

La cuestión es bastante compleja. Que el nuevo rito tenga deficiencias es ya una evidencia para todos y el Papa ha dicho y escrito varias veces que debería “mirar al antiguo”; sin embargo, Dios nos guarde de la tentación de los líos híbridos; la Liturgia, con la “ele” mayúscula, es la que nos viene de los siglos, ella es la referencia, no se la debe corromper con compromisos “a Dio spiacenti e a l’inimici sui” [que desagradan a Dios y a sus enemigos].

¿Qué quiere decir, Maestro?

Tomemos, como ejemplo, las innovaciones de los años sesenta. Algunas “canciones populares” beat y horribles y tan de moda en las iglesias en el ’68, hoy ya son trozos de arqueología; cuando se renuncia a la perennidad de la tradición para hundirse en el tiempo, se está condenado al cambiar de las modas. Me viene a la mente la Reforma de Semana Santa de los años cincuenta, hecha con una cierta prisa bajo un Pío XII ya cansado. Y bien, sólo algunos años después, bajo el pontificado de Juan XXIII (quien, más allá de lo que se diga, en liturgia era de un tradicionalismo convencido y conmovedor), me llegó una llamada de Mons. Dante, ceremoniero del Papa, que me pedía preparar el “Vexilla Regis” para la inminente celebración del Viernes Santo. Respondí: “pero lo han abolido”. Se me respondió: “el Papa lo quiere”. En pocas horas, organicé las repeticiones de canto y, con gran alegría, cantamos de nuevo lo que la Iglesia había cantado por siglos en aquel día. ¡Todo esto para decir que, cuando se hacen desgarros en el tejido litúrgico, esos agujeros son difíciles de cubrir y se ven! Nuestra liturgia plurisecular debemos contemplarla con veneración y recordar que, en el afán de “mejorarla”, corremos el riesgo de hacerle sólo daños.

Maestro, ¿qué papel tuvo la música en este proceso?

Tuvo un rol importante por varias razones. El melindroso cecilianismo, al cual ciertamente Perosi no fue ajeno, introdujo con sus aires pegadizos un sentimentalismo romántico nuevo, que nada tenía que ver con aquella densidad elocuente y sólida de Palestrina. Ciertas extravagancias de Solesmes habían cultivado un gregoriano susurrado, fruto también de aquella pseudo restauración medievalizante que tanta suerte tuvo en el siglo XIX.

Cundía la idea de la oportunidad de una recuperación arqueológica, tanto en música como en liturgia, de un pasado lejano del cual nos separaban los así llamados “siglos oscuros” del Concilio de Trento… Arqueologismo, en resumen, que no tiene nada que ver con la Tradición y que quiere restaurar lo que tal vez nunca ha existido. Un poco como ciertas iglesias restauradas en estilo “pseudo-románico” por Viollet-le-Duc.

Por lo tanto, entre un arqueologismo que quería remitirse al pasado apostólico, prescindiendo de los siglos que nos separan de ellos, y un romanticismo sentimental, que desprecia la teología y la doctrina en una exaltación del “estado de ánimo”, se preparó el terreno para aquella actitud de suficiencia respecto a lo que la Iglesia y nuestros Padres nos habían transmitido.

¿Qué quiere decir, Monseñor, cuando en el ámbito musical ataca a Solesmes?

Quiero decir que el canto gregoriano es modal, no tonal; es libre, no ritmado, no es “uno, dos tres, uno dos tres”; no se debía despreciar el modo de cantar de nuestras catedrales para sustituirlo con un susurro pseudo-monástico y afectado. No se interpreta un canto del Medioevo con teorías de hoy sino que se lo toma como ha llegado hasta nosotros; además, el gregoriano sabía ser también canto de pueblo, cantando con fuerza nuestro pueblo expresaba su fe. Esto Solesmes no lo entendió, pero todo esto sea dicho reconociendo el gran y sabio trabajo filológico que hizo con el estudio de los manuscritos antiguos.

Maestro, ¿en qué punto estamos, entonces, de la restauración de la música sagrada y de la liturgia?

No niego que haya algunos signos de restablecimiento. Sin embargo, veo el persistir de una ceguera, casi una complacencia por todo lo que es vulgar, grosero, de mal gusto e incluso doctrinalmente temerario… No me pida, por favor, que dé un juicio sobre las “chitarrine” y sobre las “tarantelle” que todavía nos cantan durante el ofertorio… El problema litúrgico es serio, no se debe escuchar a aquellas voces que no aman a la Iglesia y que se lanzan contra el Papa. Y si se quiere sanar al enfermo, hay que recordar que el médico piadoso hace la llaga purulenta…